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La Via Contemplativa
"Hai in te Colui che cerchi fuori di te". San Bernardo di Chiaravalle "L'eternità è il tempo, il tempo l'eternità: vederli come opposti la perversità dell'uomo". Angelus Silesius
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L'insegnamento contemplativo di Gesù in Matteo 6,6.
"Invece, quando tu preghi, entra nella tua camera, chiudi la porta e prega il Padre tuo, che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà" (Mt 6,6). Nella preghiera contemplativa andiamo a sperimentare la relazione più profonda che esiste, la "conoscenza piena" di Dio (Col 1,9) "nel quale sono nascosti tutti i tesori della sapienza e della scienza" (Col 2,3) che san Paolo considerava la vera conoscenza di Dio, perché ci apre al mistero divino e ci fa sperimentare ciò che è alla fonte della vita (Col 3,9-10). La contemplazione stessa è stare alla presenza del divino senza alcun divario così da conoscere le profondità di Dio. La contemplazione è l'esperienza della pura fede, la "profonda conoscenza di Dio". San Giovanni della Croce, riprendendo l'esperienza di Plotino e Meister Eckhart, ricorda, però, che alla conoscenza di Dio ci possiamo arrivare attraverso la conoscenza di noi stessi: "la conoscenza di sé, dalla quale, come dal suo fondamento, nasce la conoscenza di Dio". Possiamo comprendere che il termine Padre, nell'Antico Testamento, non è qualcosa di maschilista ma indica la Fonte Originaria di tutto ciò che esiste. La fonte che feconda è maschile, mentre la vita che si manifesta ed è fecondata è femminile, in un alternarsi naturale e complementare. Nella profondità della contemplazione la Fonte Originaria viene sperimentata come qualcosa di intimo e personale, per questo Gesù non chiamava il Padre con i nomi dell'Antico Testamento. Questo è il punto cardine dell'esperienza di Gesù e l'apertura per la famiglia umana alla coscienza di Cristo nel regno dei cieli. Ciò che veniva espresso e compreso esteriormente nell'Antico Testamento diventa esperienza diretta, gnosis, nel Nuovo Testamento, grazie alla pienezza umana e spirituale dell'esperienza di Gesù. Forte dell'esperienza di profonda intimità e piena conoscenza, Gesù, per indicare la fonte di tutto ciò che esiste, non usa un termine tradizionale e tecnicamente esatto come quelli indicati nell'Antico Testamento. Gesù utilizza il termine Abbà che in aramaico vuol dire papà; tale parola veniva correntemente usato nel lessico comune per indicare il proprio padre, la propria fonte della vita terrena e fisica; in un linguaggio intimo e confidenziale, viene usato da Gesù per chiamare la fonte originaria di tutto ciò che esiste. La stessa confidenza che un figlio ha con il proprio padre terreno, basata sulla condivisione dell'esperienza di vita, Gesù l'aveva con la Fonte di tutto ciò che è, quel Padre che definiva confidenzialmente e intimamente papà, Abbà. Così, l'affermazione di Gesù, "io e il Padre siamo una cosa sola" (Gv 10,30), deriva dalla diretta esperienza della Fonte Originaria, dalla costante presenza della Sua coscienza nel Padre, nel regno dei cieli. Siamo tutti chiamati a vivere e condividere (1Cor 8,6) tale unione. Si sottolinea però che dobbiamo essere certi di non manipolare questa intimità facendo attenzione ad ampliarla e svilupparla al massimo senza permettere al proprio programma illusorio di inglobare tale profonda esperienza nel proprio schema, nella recita della propria vita. In tal modo evitiamo che un'iniziale esperienza sana diventi al contrario motivo di appagamento emotivo, di soddisfazione per il proprio programma emozionale ed illusorio di felicità. Per garantire che questa intimità si sviluppi in maniera sana, l'Antico Testamento, ripreso in seguito da san Paolo, suggerisce il metodo usando l'espressione "timore del Signore" (Gb 28,28; Sal 111,10; Pr 1,7; Pr 8,13; Pr 16,6; Is 11,2; 2Cor 5,11). L'espressione non può essere tradotta letteralmente secondo il moderno modo di pensare perché i termini usati durante le epoche passate avevano un valore nel loro contesto che non è quello che oggi attribuiamo loro. Avere "timore di Dio" nell'Antico Testamento può essere tradotto, interpretando san Paolo (2Cor 5,11), come lo "stare attenti e presenti alla presenza del divino, coscienti e consapevoli della Fonte Originaria". La paura dell'Antico Testamento diventa un'attitudine di massimo rispetto, che si può definire reverenza, presenza del valore di ciò con cui stiamo intessendo una relazione, stupore per la tanta bellezza con la quale interagiamo con massima attenzione e delicatezza. Grazie all'intimità e al rispetto si sviluppano le relazioni più profonde, vere e stabili dove questi due opposti si integrano e si potenziano l'un l'altro. Così, con l'aumentare dell'intimità e della confidenza, aumenta il rispetto, la reverenza e la devozione. Se aumenta la confidenza senza aumentare il rispetto, la relazione verrà presa sotto gamba ed inclusa nella recita del proprio falso Sé perdendo di valore ed autenticità. Se aumenta il rispetto senza aumentare la confidenza, tale rispetto diventerà paura di un Dio punitivo e vendicativo. Gesù, con la propria esperienza, ha reso vive le parole dell'Antico Testamento, così che Dio fosse sperimentato in tutta la sua vicinanza, accoglienza e verità. Infatti, solo dopo la diretta sensazione di intimità e unità con Dio, la vera e reale esperienza della Fonte Originaria, possiamo smettere di considerarci divisi da un Dio castigante e vendicativo per sentirci costantemente nutriti e guidati dalla forza della vita che sgorga dall'origine di tutto ciò che esiste. Là dove creatore e creato sono un continuo che mai si interrompe, tenuto insieme dalla forza dell'amore, così che nel tutto ognuno è se stesso. In tal modo, dicendo "se vuoi pregare", Gesù suggerisce, nelle parole di Keating, "se nella tua pratica vuoi andare oltre i segni, le meraviglie e le consolazioni spirituali, prova questa formula". In altri termini, se vogliamo sperimentare la pura presenza, al di là di ogni appagamento del falso Sé, di quell'illusoria necessità di cercare la felicità in esperienze limitate nello spazio e nel tempo, dobbiamo seguire ciò che andrà a dirci. La pura presenza è ciò che ricerchiamo, pura presenza di ciò che è, senza giudizio imposto dalle proprie esigenze emotive. La pura presenza la troviamo solo nella pura preghiera. Quando la preghiera è veramente libera dal proprio ego è pura presenza. Allora non c'è più differenza tra le due, la preghiera è presenza di ciò che è, mentre la presenza è preghiera di aprirsi al flusso spontaneo della vita, al movimento e volontà di Dio. L'essere completamente presenti alla realtà, per quello che realmente è, libera da necessità, porta ad essere completamente aperti alla trasformazione, in quanto porta ad abbandonarsi al movimento e flusso spontaneo che nasce dalla fonte originaria e genera tutto ciò che è creato. Di nuovo, non c'è più né differenza né divario tra pura preghiera e pura presenza. Siamo completamente coscienti in pienezza e verità. Keating rassicura che questo tipo di pura preghiera "in qualunque forma venga espressa diventa la manifestazione della propria abituale relazione con Dio". Ancora Keating, per spiegare il successivo consiglio di Gesù, "entra nella tua camera", commenta: "se vuoi accedere alla profonda conoscenza di Dio ed entrare in quel processo che porta alla divina unione, entra nella tua stanza come primo passo". Tale "camera" non è un luogo fisico ma una dimensione dello Spirito che può essere visionata solo mediante l'occhio spirituale, descritto nei Vangeli come "la lucerna del corpo è l'occhio; se dunque il tuo occhio è chiaro, tutto il tuo corpo sarà nella luce" (Mt 6,22). "Se il tuo occhio è sano anche il tuo corpo è tutto nella luce" (Lc 11,34) poiché se "uno non rinasce dall'alto, non può vedere il regno di Dio" (Gv 3,3), così da rinascere in "acqua e spirito" (Gv 3,4). Per poter osservare la realtà alla sua fonte, mediante l'occhio dello spirito, dobbiamo innanzi tutto smettere di osservare la realtà attraverso l'occhio della mente, con il quale inibiamo la realizzazione della vera vita sulla terra, e nell'esperienza di san Paolo, perseguitiamo il Cristo (At 9,4-5). La preghiera del silenzio è la tecnica che permette di smettere di identificarci con ciò con cui la nostra mente si riconosce. L'apertura alla vacuità d'amore che ci spinge oltre le facoltà ordinarie, crea una sana tensione interiore che stimola lo Spirito a manifestarsi. Quando la mente fa spazio, lo Spirito si manifesta poiché quando una facoltà è inibita, le altre si attivano per compensare, così come succede ad una persona cieca o sorda a cui si acuiscono gli altri sensi. Una volta che la preghiera del silenzio ha svolto il suo compito, è lo Spirito dell'uomo attraverso la fede a manifestarsi e percepire la realtà. Così come la realtà fisica è la bellezza del mondo manifesto che vediamo, la realtà dell'anima è il pensiero, il sentimento e l'intuizione, la realtà dello Spirito è la Fonte Originaria della vita. Siamo nella dimensione della pura preghiera, della contemplazione di ciò che esiste all'origine, la pura realtà. Chiudersi nella propria stanza indica l'atto di celarsi nell'occhio dello Spirito lasciando andare tutte le percezioni dell'occhio fisico e di quello della mente che ci fanno identificare con realtà materiali allontanandoci, di conseguenza, da quelle dello Spirito. Quando, invece, ci chiudiamo a ciò con cui ci identifichiamo esteriormente, al quale rimarremmo in parte inevitabilmente attaccati, ci apriamo alle realtà spirituali. Nell'atto contemplativo ci distacchiamo da tutto ciò che non è Spirito; allontanandoci dalle cose materiali, ci apriamo alla vera realtà spirituale. Il primo passo nella preghiera è l'utilizzo della parola per cessare di identificarci con ciò che ci chiude allo Spirito così da essere distaccati e liberi di entrare nella propria stanza, sede dello Spirito e della Fonte Originaria. Il secondo passo avviene nella vita: la pratica della preghiera del silenzio, infatti, è il mezzo per vivere la vita più intensamente. Nella vita ordinaria usiamo lo stesso meccanismo di non identificazione e distacco smettendo di ricercare la felicità e la gratificazione nella soddisfazione delle esigenze emotive, smettendo di ricercare sicurezza, affetto, stima e controllo. Sospendendo la ricerca di verità parziali e liberi di poter lasciar andare, ora che siamo consapevoli che non ci servono più, ci apriremo e troveremo dimensioni sempre più ampie. Dal momento che il linguaggio di Dio è nel silenzio, ritirare il proprio ego per generare silenzio è il passo essenziale affinché Lui si possa manifestare in noi così che il nostro vero Sé possa vivere e manifestarsi. Il "chiudere la porta" è un invito a smettere il nostro dialogo interiore poiché nel dialogo c'è dualità, c'è un soggetto che parla e uno che ascolta e nel divario fra i due si crea ogni illusione e falsa realtà. Il dialogo più insidioso da eliminare è di pretendere risultati dalla pratica, per soddisfare le aspettative personali. Questo è il momento più difficile ma anche il più importante: ritirare il proprio ego smettendo di pretendere, soprattutto quando il nostro desiderio non sembra una pretesa ma un diritto di tutti o, comunque, una necessità lecita. Si riafferma la nostra originale intenzione di chiudere la porta ritornando con gentilezza alla parola sacra sia durante la pratica che nella vita quotidiana. La gentilezza nella pratica è un atto necessario. Ci apriamo al tocco divino, appunto con gentilezza e delicatezza, come descrive San Giovanni della Croce: "Dio mio e vita mia, sentiranno e vedranno il tuo tocco delicato soltanto coloro che, allontanatosi dal mondo, saranno diventati finemente sensibili, poiché solo ciò che è delicato conviene con il suo simile e così essi ti potranno sentire e godere. Tanto più leggermente li tocchi, quanto più stando nascosto nella sostanza della loro anima resa monda, pura e libera da ogni creatura ed esperienza, li nascondi nel profondo del Tuo volto che è il Verbo, lontani dalla molestia degli uomini (Sal 30,21)". Dopo qualche periodo di pratica, l'intera giornata è una pratica costante di presenza ed intenzione. Siamo, infatti, presenti alla Fonte Originaria con momenti di consolazione e percezione spirituale e momenti di desolazione e dissoluzione delle vecchie illusioni. Nel primo caso siamo coscienti della divina presenza, nel secondo non ne siamo consapevoli, ma in entrambe le situazioni è la Fonte Originaria a muoverci e spingerci verso ciò che deve essere per la nostra vita. Abbiamo già tutto, siamo già nel tutto, siamo comunque nel flusso della vita. La contemplazione serve per andare a percepire altri strati della stessa vita che comunque è già presente. Così, ogni volta che affiora qualche illusoria sensazione di mancanza, non resta che sintonizzarci nuovamente sul flusso della parola che ci riporta al cospetto della divina presenza, nel silenzio, senza agire ulteriormente e senza generare alcun dialogo. Scopriamo che rinnovare la sensazione di legame con la nostra origine è l'unica forma di cura risolutiva. "Prega il Padre tuo, che è nel segreto". Il segreto lo si trova nel silenzio, perfino segreto a noi stessi; siamo senza esserci, nella pura presenza e consapevolezza. Ci troviamo dove non c'è divisione tra noi e il silenzio, dove non c'è dialogo interiore, dove nessuno ci dice che siamo nel silenzio. Siamo senza sapere, siamo nella conoscenza suprema senza conoscere di esserlo, siamo talmente coscienti che non sappiamo di essere coscienti perché ci siamo espansi e diffusi nella nostra Fonte Originaria. Conoscitore e conosciuto sono diventati la stessa identica cosa seppure sempre distinti in una visione trinitaria. Siamo nella libertà dello Spirito, talmente liberi che possiamo sapere di esserci solo quando ne usciamo, nel momento in cui riprendiamo il dialogo interiore. Quando la coscienza si attacca di nuovo al flusso dei pensieri, siamo consapevoli di essere stati in-fusi nella Fonte Originaria, in pura presenza. Ricolmi di Dio e completamente assenti a qualunque dualità, siamo senza essere. Essere e non essere sono diventati la stessa identica cosa in un fluire spontaneo e a-duale. Sant'Antonio il Grande diceva che la "preghiera perfetta è non sapere che stai pregando". San Benedetto, raccontando la propria esperienza di preghiera, una volta disse: "prima stavo pregando e piangevo, ma solo ora che sono uscito dalla preghiera so che stavo piangendo". In un atto in cui consolazione e desolazione sono diventati la medesima cosa, non-essere ed essere completamente identici, il Santo viveva la gioia della pura preghiera contemplativa, completamente immerso nella divina presenza, il non-essere e, contemporaneamente, l'essere in continuo divenire veniva trasformato. Il pianto, infatti, è la manifestazione della sofferenza per la trasformazione in atto. In questo caso, se la coscienza sta in presenza della Fonte Originaria, la sofferenza non viene vissuta come disastrosa ma come atto necessario che porta frutto. Soltanto a questo livello di vita contemplativa, desolazione e consolazione diventano aspetti della medesima espressione di pienezza spirituale. Così viviamo in "perfetta letizia" "ogni sorta di prove" (Gc 1,2-3) comprendendo appieno gli insegnamenti di Seneca . La sofferenza, infatti, non deriva più dalla resistenza che facciamo quando le cose non vanno come le nostre esigenze emotive vorrebbero, così come accade ad un livello di coscienza emotivo e tribale. La sofferenza è, invece, la presa di coscienza di una trasformazione in atto che viene sperimentata come traumatica dal proprio senso dell'io. Dato che la trasformazione è il processo di divinizzazione che ricerchiamo vivendo in maniera contemplativa, la sofferenza, che ne esprime la realizzazione a livello sensoriale, è indice di successo. Essa, infatti, non è una sofferenza fine a se stessa che si appaga solo di se stessa, ma una conseguenza della partecipazione nella Trinità alla trasformazione e redenzione della manifestazione della vita in questo mondo. "E il Padre tuo che vede nel segreto, ti ricompenserà": Dio si manifesta nel segreto e nel silenzio, là dove tutto ha origine, il luogo dell'iniziale manifestazione della vita, là è la prima ricompensa. Il poter stare in piena presenza dell'Assoluto è la ricompensa suprema. Lao-zi dice "morire conoscendo l'immortale è la vera longevità", in termini contemplativi può essere interpretata come "perdere se stessi per conoscere l'Assoluto è la vera vita". Stando nella pura presenza di ciò che è in origine, all'origine della nostra vita, permettiamo che tale forza e movimento si espanda in tutto ciò che è manifesto, in tutti i corpi duali, così da trasformarli e stabilizzarli sempre più. Rimanendo presenti alla Fonte Originaria generiamo le trasformazioni più intense e illuminanti per la vita ordinaria. Nella contemplazione infusa troviamo la più grande redenzione perché la vita viene trasformata fin dalle sue profondità originarie. Così, al cospetto della Fonte Originaria di eterna vita, "noi festeggiamo qui, nel tempo, la nascita eterna che Dio Padre ha compiuto e compie incessantemente nell'eternità, la medesima nascita che si è compiuta anche ora nel tempo, nella natura umana", insegna Meister Eckahrt. Se il tempo esiste ora, anche l'infinito esiste ora. Nella contemplazione giungiamo alle soglie dell'infinito ed assistiamo alla continua rinascita che sgorga dalla Fonte Originaria. Pace e gioia interiori nascono come conseguenza spontanea dell'essere presenti a tanta grazia e bellezza. La preghiera deve diventare sempre più semplice e diretta perché sempre più spontanea e libera nel movimento dello Spirito. Thomas Merton insegna che "la preghiera del cuore ci conduce ad un profondo silenzio interiore, cosicché possiamo sperimentarne la forza. Per questo motivo la preghiera del cuore deve sempre essere semplice, limitata agli atti più semplici, senza far uso né delle parole né, soprattutto, del pensiero". L'uso della parola passa da un atto meccanico ad un movimento spontaneo e delicato della coscienza. La parola sacra rappresenta la nostra stessa attitudine e la nostra intenzione a lasciare andare ogni attaccamento materiale per aprirci alla pura presenza della Fonte Originaria e della sua azione su di noi. Inizialmente, l'uso della parola avviene in due tempi distinti: il primo è riconoscere che stiamo pensando, il secondo è introdurre la parola con delicatezza affinché ci possiamo distaccare dai pensieri. Questo è il passo iniziale per l'introduzione alla pratica della preghiera del silenzio, ma ben presto risulterà troppo superficiale e, come ogni cosa superficiale, troppo meccanico. Nel libro La nube della non-conoscenza si legge: "se vuoi condensare tutta l'intenzione di abbandonarti nell'infinito in una parola, usane una breve di una o due sillabe, fissala nel tuo cuore finché tu non diventi quella parola, la risposta a ciò che stai cercando sta nell'intenzione di quella parola". Quando la parola è entrata nel proprio cuore ed il praticante nell'essenza della parola stessa, così che non ci sia separazione fra la parola e chi la pronuncia, la parola si manifesterà da sola. Non sarà più la volontà cosciente ad innescare il procedimento ma avverrà in automatico. A questo punto, l'unica cosa da fare per mantenere e potenziare questa azione è rimanere presenti e abbandonati a ciò che avviene spontaneamente. Il nostro vero Sé si manifesta e comincia ad agire perché l'ego ha smesso di voler controllare e gestire. Finché l'ego controlla, il Sé non si manifesta. In questa condizione dobbiamo usare la volontà cosciente che è duale e meccanica. Man mano che l'ego comincia a cedere il controllo avremo bagliori di manifestazione del vero Sé che verrà sperimentato come per nascondersi. In realtà, il vero Sé si nasconde o torna nelle profondità dell'inconscio ogni volta che il falso Sé, l'ego, lo riconosce. Nel momento in cui l'ego smette definitivamente di voler controllare, il vero Sé si manifesta spontaneamente. A questo punto non è più la persona che pratica la preghiera del silenzio attraverso l'uso della parola sacra, ma è lo Spirito che innesca la parola, nell'intenzione di distaccarsi da tutto ciò che è limitato e manifesto. Non agiamo più con la forza di volontà, ma con la fonte della nostra volontà; non stiamo più forzando dal manifesto ma ci muoviamo fluidi e spontanei dalla sorgente della vita stessa. Quanto appena descritto è il passaggio dalla preghiera del silenzio alla contemplazione infusa. Sovente capita che, quando avviene questo passaggio, il praticante sperimenti una sensazione fisica di caduta dal torace al diaframma , molto simile a quella che sentiamo in macchina quando discendiamo un dosso ripido a forte velocità. Tale sensazione indica che lo Spirito, che ha sede nel cuore, si sta incarnando penetrando al centro della persona fisica, il diaframma. Questa, che è un'esperienza comune a molti, non deve però essere considerata in alcun modo termine di valutazione assoluto delle proprie capacità spirituali. Moltissimi tra i migliori e più avanzati praticanti non hanno mai avuto questa sensazione. Passare dalla preghiera del silenzio alla contemplazione infusa è come passare dallo stato di veglia al sonno: non facciamo niente se non abbandonare qualsiasi attività cosciente e, spontaneamente, entrare nel sonno. L'unica differenza è che nel sonno ci lasciamo andare per entrare in una condizione di incoscienza, mentre nella preghiera ci abbandoniamo mantenendo sempre una condizione cosciente, fino ad entrare nella spontaneità della contemplazione in piena coscienza. La coscienza raggiunge il suo culmine quando non c'è più differenza tra osservatore ed osservato così da essere senza sapere di essere se non quando ne siamo usciti. Durante i ritiri spirituali dei monaci, Thomas Merton metteva sempre in guarda contro il cercare di ottenere qualcosa dalla contemplazione, al contrario invitava ad imparare ad aspettare, osservare e crescere senza alcun desiderio recondito di miglioramento personale. Raggiungiamo la condizione in cui tutto avviene spontaneamente, senza che l'ego controlli niente, in un processo continuo dove creatore e creato, osservatore ed osservato, si muovono in un unico flusso ininterrotto ed indivisibile. Siamo nella piena spontaneità indicata da tutte le tradizioni come essenziale per lo sviluppo spirituale e per l'evoluzione della coscienza. La spontaneità che indicava Gesù dicendo che se "non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli" (Mt 18,3) non indica il grado di poca consapevolezza propria di un bambino ma la condizione di spontaneità e naturalezza tipica dei piccoli nella quale l'azione non coinvolge soltanto la parte cosciente ma anche l'inconscio dove non si registrano differenze tra le due parti della relazione. Così, i potenziali inconsci che prima ci tenevano legati alle sofferenze del passato, costringendoci a ripetere sempre le stesse esperienze, vengono ora veicolati costruttivamente in modo da garantirci libertà dalle sofferenze passate e dall'ansia per il futuro. Siamo nella condizione di pura presenza nell'attimo reale, in modo che quell'attimo diventi veicolo per l'evoluzione e trampolino per sperimentare le profondità della vita spirituale e dell'infinito. La spontaneità non reprime nell'inconscio i potenziali non stabili, con il risultato che essi ci influenzano senza che ce ne accorgiamo, ma lascia vivere l'inconscio nel flusso ordinato e stabile della coscienza. La preghiera del silenzio non è praticata per dissociarci dalle emozioni, reprimendole nell'inconscio. Attraverso l'uso della parola sacra distacchiamo la nostra coscienza dallo sperimentare la realtà esclusivamente mediante emozioni e pensieri. Una volta che la coscienza si è espansa nelle profondità dello Spirito, possiamo abbracciare con maggiore efficacia e giustizia qualunque emozione negativa o pensiero ossessivo. L'apertura al vuoto dell'Assoluto è la medicina che ci permette di trasformare qualunque emozione negativa, sofferenza ed esperienza non risolta. Solo quando la coscienza si apre al vuoto, possiamo interagire in maniera sana con i nostri dolori, peccati, memorie bloccate e non completate. Il vuoto dell'Assoluto, l'apertura allo spirito, che avviene nella contemplazione grazie alla tecnica della preghiera del silenzio, permettono di integrare vuoto e pieno, Dio e Uomo, libertà e peccato. La sofferenza non sarà più immobilizzante ma sarà dissolta in Dio, nell'Assoluto, affinché venga "giustificata" (Rm 3,24; Rm 5,1), trasformata in qualcosa di più ampio e stabile e divenga verità divinizzata. "Solo la croce di Cristo dà senso a tutto" ripete sempre una suora sconosciuta, mistica cistercense, attualmente vivente. Solo se apriamo le nostre sofferenze al vuoto rigenerante, la nostra vita può prendere un nuovo senso, verso la libertà, il distacco e l'amore, verso la vera vita. Il distacco non è dissociazione, bensì il suo contrario. Quando rimaniamo bloccati in una memoria del passato siamo dissociati dalla realtà presente, dalla vita reale. Per poterci liberare dalle memorie passate, che ci impediscono di vivere la vita presente, dobbiamo distaccarci da esse e dalla superficialità che ci impone di interpretare ogni esperienza alla luce dei traumi del passato, bloccati nelle nostre memorie. Tanto ci apriamo all'Assoluto, tanto entriamo nelle profondità delle nostre sofferenze. Più la coscienza si espande in tali memorie, più possiamo reintegrarle. Ecco, così, che il distaccarsi dalla visione parziale della vita permette di smettere di essere dissociati dalla vita stessa, dal poter vivere la vita in tutta la sua pienezza. Abbiamo, così, seguito il monito di san Paolo: "perché non coloro che ascoltano la legge sono giusti davanti a Dio, ma quelli che mettono in pratica la legge saranno giustificati" (Rm 2,13). Queste parole, nell'esperienza contemplativa, hanno un doppio significato. Il primo è che, seppure essenziale come inizio, il conoscere con la mente ciò che ha senso non è sufficiente, ma occorre viverlo, cioè "metterlo in pratica". Il secondo è che la sola volontà cosciente di cambiare valori e comportamenti, di elevare la coscienza ed innalzarsi spiritualmente, seppure in buona fede, non è sufficiente. Per mettere in pratica la legge, per adattarci in questa dimensione a quelle che sono le regole di funzionamento e funzionalità di questa dimensione, dobbiamo coinvolgere anche la parte inconscia, dobbiamo manifestarci con l'interezza della nostra potenzialità, cosciente e inconscia. L'ego ristagna quando vuol vivere solo di ciò di cui è cosciente, escludendo i potenziali dell'inconscio, mentre è a disposizione della manifestazione spirituale quando si apre ad integrare ed inglobare i potenziali inconsci nella coscienza. La contemplazione è l'allenamento affinché il nostro sistema si apra costantemente ai nuovi potenziali dell'inconscio così che l'evoluzione si sviluppi fluida e naturale. Senza voler controllare il processo evolutivo, creiamo quelle condizioni ideali affinché tale processo sia creativamente veicolato. Dal testo "La Contemplazione Cristiana: la preghiera del silenzio per la trasformazione dell'anima", Marco Ragghianti, ed. Appunti di Viaggio.

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